giovedì 19 gennaio 2012

Politica estera. All' Ovest qualcosa di nuovo (sabato, 11 novembre 2006)


sabato, 11 novembre 2006

Politica estera. All' Ovest qualcosa di nuovo

  


Elezioni di medio termine USA
L’ora del tramonto
di Furio Colombo * (09.11.2006)



George W. Bush ha perso le elezioni. Il suo ministro della Difesa si è dimesso. Accade - ti dicono - nelle cosiddette elezioni di mezzo termine, quando si rinnova tutta la camera dei rappresentanti (deputati), un terzo del Senato e un certo numero di governatori. Infatti è già accaduto. Ma non nelle proporzioni, non con le conseguenze con cui questa volta gli americani hanno votato. Questa volta, nonostante la potente macchina elettorale di George Bush, nonostante l’immensa spesa, la valanga di spot, il tentativo di far pesare all’ultimo istante la condanna a morte di Saddam Hussein, George W. Bush, il più anomalo presidente che gli Stati Uniti abbiano mai conosciuto, è stato personalmente sconfitto. Questo è un voto che nega la sua politica e i pilastri su cui quella politica era fondata: l’uso senza limiti della potenza, il diritto alla guerra preventiva, la cancellazione di qualunque garanzia politica giuridica e umana dentro e fuori degli Usa e in qualunque Paese del mondo, l’unilateralismo senza alleanze che ac
cetti solo «volenterosi» subordinati e obbedienti al seguito.
È molto importante confrontare la portata del successo elettorale dei democratici con i princìpi su cui è fondata la grande anomalia di George W. Bush. Bush è stato il primo presidente ideologico della storia americana. Ha imposto, con la forza di una compattezza nazionale dovuta a una grave situazione di emergenza, princìpi due volte estranei all’America: perché rinnegano le «Carte federaliste» su cui è fondata la Repubblica americana (per esempio, spostando nelle mani dell’esecutivo poteri che sono propri esclusivamente del legislativo e del giudiziario) e perché negano l’habeas corpus, architrave del più democratico edificio politico del mondo.
Ma anche perché introducono nel Paese e nella cultura più pragmatica del mondo - la cui forza è di capire e cambiare attraverso il sacro principio di «prova ed errore» - l’oggetto estraneo di un corpo ideologico impenetrabile e chiuso ad ogni discussione, barricato dietro l’arbitraria definizione di patriottismo per chi si arruola, di tradimento per chi si oppone.
L’avventura che l’America ha vissuto sotto la strana presidenza di George W. Bush è unica ed estranea alla vita e alla tradizione americana. Unico perciò, e dunque non confrontabile con eventi simili già accaduti, è il voto che gli ha negato fiducia.
È vero che la modalità del «voto di mezzo termine» si esprime esclusivamente fuori dal territorio della Casa Bianca, e nello spazio riservato alle elezioni dei senatori, deputati, governatori, dunque nell’ambito della politica locale. Ma è anche vero che componendo i mille punti in cui si è espresso, luogo per luogo, nell’America delle grandi città e in quella delle grandi praterie, il verdetto popolare, si ha una risposta netta che dice molto più di un sì agli eletti democratici (larga maggioranza alla Camera, vittoria al Senato, maggioranza dei governatori). Dice un no secco all’attuale presidente degli Stati Uniti.
È un no che non riguarda la contrapposizione repubblicani-democratici o destra-sinistra. È un no all’estremismo solitario e immensamente pericoloso di un presidente che - come accade nelle brutte avventure politiche - si è presentato, insieme con la sua corte screditata e sospetta persino dal punto di vista degli affari condotti in guerra, come l’incarnazione della patria e ha dunque tentato di gettare la patria sul percorso dei suoi avversari. Il tentativo di Bush è la classica mossa avventurista delle destre della storia: prendere la decisione politica di mandare i soldati in guerra, e poi accusare chi si oppone alla guerra di abbandonare e disonorare i soldati. Questo Bush è stato raggiunto da una valanga di no che intendono soprattutto scardinare la sua pretesa di dominio politico fondato sul patriottismo. Se c’è un Paese in cui il legame di identificazione è molto forte - forse il più forte del mondo - sono gli Stati Uniti. Gli americani dicono «noi» anche (e soprattutto) quando criticano il loro governo. L’accusa costante di disfattismo, l’insinuazione di tradimento, sono particolarmente odiose in America, proprio perché il Paese non è ideologico, i fatti sono veri o sono falsi e non c’è altro modo di ambientare le accuse che non sia la realtà. La realtà della vita americana si è ribellata e ha spinto indietro con un colpo rude la «fiction» ideologica di George W. Bush, il suo cupo Truman Show in cui sono già morti (senza che se ne capisca il senso) tremila soldati americani, e ogni giorno continuano a morire. E dove sta diventando impossibile non tener conto ogni giorno delle cataste di morti iracheni, vittime di una guerra civile che nessuno sa come fermare.
Ora che Donald Rumsfeld, un ministro della Difesa che ha una brutta immagine sia con i pacifisti che con i soldati, uomo di immenso insuccesso e di grande ed esibito cinismo, ha dato le dimissioni (permettendo a Hillary Clinton, che lo aveva chiesto da tempo, di piazzare un suo personale successo politico), diventa più chiaro che queste elezioni sono un referendum anti-Bush. Perde la Camera, i governatori, il Senato. Soprattutto perde la faccia di incarnazione della patria. Ha detto Edward Kennedy: «Ha perso George Bush perché non perda l’America». Restano molti problemi, però meno uno. Esce di scena la politica di Bush. Entra un’America responsabile che si pone con drammatica serietà (e insieme agli alleati del mondo) la domanda cruciale: «Come ne usciamo?»
www.unita.it, Pubblicato il: 09.11.06 Modificato il: 09.11.06 alle ore 8.56

Apprendista stregone

di Barbara Spinelli (La Stampa, 10.11.2006)

Le ultime mosse di George W. Bush, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo parziale del Congresso, sono state patetiche oltre che rovinose per lui: sentendo che l’onda democratica avanzava si è comportato come l’apprendista stregone di Goethe, che in extremis cerca di fermare le scope trasformate in spiriti maligni. Lui che aveva dichiarato una guerra sterminata al terrorismo, lui che questa guerra l’ha messa al centro della politica sino a esser capo dell’esercito ben più che Presidente, si è d’un tratto reso conto che gli spiriti suscitati non erano più controllabili e ha tentato di parlar d’altro. Durante tutta la campagna elettorale ha fatto finta che il mondo da lui creato fosse un’invenzione, sperando che gli elettori avrebbero votato su altri temi: temi locali, valori, etica matrimoniale. Invece la guerra ha finito col travolgerlo, e il gioco magico si sfascia. Non c’è più confine tra locale e nazionale, tra interno ed estero, tra politica e guerra, perché precisamente questa è stata l’impresa di Bush. Perché della guerra si è servito a fini interni, pur di radunare su di sé il massimo dei poteri e perfino il potere di torturare i prigionieri violando leggi nazionali e internazionali. Sconsolato, il Presidente è costretto a constatare l’approdo cui è giunto - i democratici riconquistano non solo la Camera ma anche il Senato, dopo 12 anni di predominio parlamentare repubblicano - e a pregare alla maniera dello stregone: «Signore, grande è l’ambascia! Coloro che avevo suscitato, gli spiriti, ora non riesco più a liberarmene!».
Naturalmente non è detto che la politica estera statunitense muti direzione: in molti Stati sono stati i democratici conservatori o centristi a vincere, e Hillary Clinton ha ricordato nei giorni scorsi che le minacce militari contro l’Iran devono restare in piedi. Ma per forza di cose la politica americana risentirà del voto, per forza toccherà all’amministrazione trovare una via d’uscita dall’Iraq, dove sono i militari Usa a constatare una condizione di caos, e anche dall’Afghanistan, dove i talebani riconquistano province e potere. L’intera guerra contro il terrorismo toccherà definirla da capo, per salvarla dal naufragio che incombe su troppe battaglie perdute, e di conseguenza sull’idea stessa dell’uso della forza come opzione di politica estera.
Giacché è quest’opzione a esser minacciata oggi, e contaminata dalla sconfitta delle guerre preventive di Bush. Lo stregone che non controlla più gli spiriti è l’America che vorrebbe dominare il pianeta e s’accorge di non riuscirci, che cessa di immaginarsi superpotenza incontrastata oltre che unica. Secondo alcuni - gli storici Niall Ferguson, Tony Judt - l’impero americano è durato pochissimo ed è in declino. È durato dal 1950 al 2000, sostiene Judt in un’intervista alla Zeit del 2 novembre. Le sue guerre sbagliate sono fallite, Bush le ha usate per suoi calcoli di potere e ha creato un universo più insicuro per tutti. È il motivo per cui sta tornando il momento dell’Europa, sostiene Judt. Sarà antiamericana o filoamericana? Ambedue le categorie son vecchie. Sarà un’Europa che difende il suo Stato sociale perché esso dà alle genti senso di sicurezza oltre che benessere giustamente ripartito. Sarà una potenza altra, purché sappia stare in piedi con le proprie forze e scegliere quel che vuole con o senza l’America. Può darsi che davvero sarà tutto questo, ma solo a condizione che l’Europa capisca quel che è accaduto in America e come l’impero stia sbriciolandosi. Si sbriciola perché la guerra fu decisa e condotta malamente, non perché lo strumento bellico sia di per sé malvagio in ogni circostanza. Si sbriciola perché il mondo globalizzato non è quello che i consiglieri neoconservatori di Bush - così simili in questo agli avversari della globalizzazione - avevano fantasticato: un impero sicuro, dominato dagli Usa. La globalizzazione somiglia piuttosto a uno stato di natura, dove benessere e commercio si estendono ma mancano le regole e ciascun uomo è lupo per l’altro uomo, non essendoci potere in grado di tenere a bada istinti e risentimenti. A questa situazione gli Stati Uniti hanno reagito con forme politiche regressive - il fallito tentativo imperiale all’estero, e solo per gli Usa i privilegi dello Stato nazione assolutamente sovrano, escogitato nel 1648 dal Trattato di Westfalia - invece di ravvivare quel poco che esiste di diritto internazionale e di istituzioni multinazionali. Gli europei rischiano di pagare i fallimenti della politica americana esattamente come li pagherà Washington, se sceglierà l’impoliticità proprio ora che urge più che mai far politica, per far fronte alle insipienze Usa.
Pensare la guerra è il grande compito dei politici europei. È la prima volta che dovranno farlo seriamente, dopo la fine della guerra fredda e il venir meno della protezione che gli Stati Uniti le hanno garantito durante la guerra fredda. E dovranno farlo sapendo che son molti a dover cominciare da zero. Alcuni hanno un passato imperiale, come Inghilterra e Francia, e pensare la guerra è per loro meno difficile. Ma esistono Paesi che semplicemente non possiedono una cultura della difesa, e che dal fallimento di Bush possono trarre conclusioni errate: possono pensare che la guerra sia di per sé un mezzo inane, e che solo la diplomazia funzioni. È il caso della Germania a causa della sua storia, e dell’Italia a causa delle due forze che nel dopoguerra l’hanno forgiata (la Chiesa cattolica, il partito comunista). Ambedue le forze hanno una cultura universalista, refrattaria alla nozione difensiva dei confini anche se aperta al mondo post-westfaliano, e non usano pensare i conflitti armati con freddezza empirica ma solo con fede e passione.
La mentalità di gran parte dei dirigenti italiani è adolescenziale, come sostiene da un certo tempo il ministro della Difesa Arturo Parisi: ci si aspetta che i mali del mondo vengano ogni volta sanati da benevolenti tutori-genitori, e «la visione delle relazioni internazionali è il più delle volte irenica». Mai si osa chiamare col loro nome né gli avversari che sono di fronte, né le missioni militari. L’Italia come la Germania ha oggi molti soldati in terre lontane, ma ogni missione è sistematicamente chiamata di pace o umanitaria. La parola guerra è tabù, e di questo sono responsabili le sinistre come le destre. La sinistra appare particolarmente confusa, ed è significativo che i militari italiani all’estero abbiano votato massicciamente centro-destra, alle elezioni politiche (l’82 per cento in Afghanistan, il 78 in Iraq, il 75 nei Balcani). Ma le destre non sono meno ambigue, elusive. È quel che Parisi ha rimproverato a Gianfranco Fini, quando questi gli ha chiesto di chiamare umanitarie ambedue le missioni, sia in Iraq sia in Libano. Parisi si è rifiutato: la missione in Iraq era militare, così come lo è quella in Libano. Ben altra è, semmai, la novità libanese. Per la prima volta, la sinistra radicale e pacifista accetta una missione militare, così come i Verdi accettarono in Germania la missione in Bosnia. Un consenso sta nascendo attorno a un’Europa-potenza capace di far politica mondiale, con missioni di pace che necessariamente hanno da esser militari.
Narra la poesia che lo stregone minacciato ha un solo sogno: ritrovare la magica parola che riduca gli spiriti a quel che erano, cioè semplici scope, strumenti che l’uomo padroneggia. Anche la guerra deve «ridiventare quello che era»: risorsa estrema, padroneggiabile, cui bisogna però prepararsi con una cultura della difesa condivisa; opzione sempre possibile, di cui occorre conoscere il come e anche il perché, con eguale precisione.
Dicono alcuni che Bush è stato sconfitto a causa del come, non del perché. Ma il come non ha funzionato a cominciare dal momento in cui il perché era nebbia, imbroglio. Perché combattiamo? Gli europei sono disabituati a rispondere ma una cosa ormai l’hanno appresa: neppure il tutore Usa lo sa, viste le caotiche menzogne che avviluppano i suoi fini militari. Se l’Italia e l’Europa non definiscono il perché, non ha senso parlare del come. Fintantoché non ci sarà un governo-mondo con un suo monopolio delle violenze dobbiamo sapere perché avremo interesse a impegnarci in lontane zone instabili, perché continueremo ad aver bisogno di soldati che si esercitino e sappiano combattere, perché bisogna che l’Europa diventi potenza nei difficili rapporti con la Russia o la Cina o gli attori medio-orientali.
Sapere il perché delle guerre significa anche riorganizzare la lotta al terrorismo, che le offensive di Bush hanno rafforzato ed esteso, indebolendo perfino Israele che Washington pretendeva proteggere. Lottare si deve, certo, ma non è solo il come che s’è rivelato inefficace. Forse non è praticabile l’idea stessa di trattare il terrorismo come male politico-militare, anziché come questione criminale. Forse è meglio parlare di lotta alla criminalità, e abolire l’illusione guerresca che tanto lusinga Al Qaeda. Non ogni attentato è atto bellico, non ogni terrorista è un combattente, legale o illegale che sia. Può essere un criminale sanguinario, come lo sono i mafiosi. La guerra va riservata a casi dove alla violenza può far seguito la politica.
Le guerre giuste sono tipiche delle ere religiose, e non a caso sono anche chiamate sante. Ma in Stati laici non ci sono guerre giuste: ci sono guerre opportune o inopportune, vincibili o non vincibili, esistenziali o non esistenziali. Tornare alla ragione, metter da parte le fedi: questa è la via degli Stati moderni e complessi, che agiscono razionalmente. Capire che il terrorismo è una patologia della globalizzazione, del suo non funzionamento, dei poteri impotenti che fingono di governarla: anche questa è una via. Il vero egemone, dice ancora Judt, è forte perché può decidere di negoziare anziché guerreggiare. Solo gli staterelli gracili hanno come unica risorsa le guerre.
Perché hanno infine vinto i democratici, anche se la loro cultura della difesa non è forte? Perché quest’onda che travolge Bush ma rischia di contaminare - se l’Europa non si sveglia - il rapporto tra democrazie e cultura della difesa? Forse Goethe risponde anche a questo. Perché la Rivoluzione francese scacciò con tanta facilità antichi monarchi? Perché erano uomini vuoti, piuttosto che monarchi: «Fossero stati re, oggi sarebbero ancora tutti illesi al loro posto».
I precedenti... (con necessarie, successive aggiunte dei…seguenti)
Venezuela. Trionfo di Chavez: confermato presidente  


 Aggiunta del 4 dicembre 2006. La riconferma alla guida del paese con una larghissima maggioranza (oltre il 60 per cento dei voti). Nel primo comizio, attacchi a George W. Bush e vittoria dedicata a Fidel Castro: "Ora costruiamo una società socialista""Patria o muerte": rimbomba in Venezuela slogan di sapore cubano, con cui Hugo Chávez ha festeggiato l'affermazione del 3 dicembre.
Il presidente ha stravinto le elezioni svoltesi in Venezuela, assicurandosi la permanenza alla guida del Paese per altri sei anni, e proclamando che "ora comincia la costruzione di una società nuova, socialista, cristiana e bolivariana".Dopo una giornata elettorale sostanzialmente tranquilla, ed agitatasi solo verso il finale, il Consiglio nazionale elettorale (Cne) ha diffuso un primo bollettino ufficiale, relativo al 78,31% dei voti scrutinati, che attribuiva a Chavez il 61,35% dei voti e al leader del centro-destra Manuel Rosales il 38,39%.
E' la prima volta nella storia del Venezuela che un presidente viene rieletto. Poco dopo l'annuncio del Cne, una grande folla si è raccolta sotto il balcone del Palazzo di Miraflores da cui Chavez, in camicia rossa, si è affacciato per cantare 'Gloria al bravo pueblo' e annunciare l'avvento di "una nuova era, una nuova epoca che avrà come linea strategica l'espansione della rivoluzione bolivariana e della democrazia popolare verso il socialismo venezuelano, bolivariano".INTERVENTO DI OLTRE UN'ORA
Durante il suo intervento, durato oltre un'ora, Chavez ha detto: "Abbiamo vinto in tutti gli Stati" del Venezuela. Egli ha poi dedicato la vittoria "al presidente Fidel (Castro) e al valoroso popolo cubano". Subito dopo ha sostenuto che "questa è una sconfitta per Mister Danger e per El Diablo (il riferimento è al presidente americano George W. Bush, ndr) che pretende di dominare il mondo". Il Venezuela, ha proseguito, "non sarà mai una colonia nordamericana". Ed ha aggiunto: "Abbasso l'imperialismo!".
Tornando sul concetto di socialismo - ha detto - pensiamo ad "un sistema che sia segnato da uguaglianza, libertà e giustizia (parole che ha ripetuto più volte, ndr.)", di cui "nessuno deve avere paura".
Il nostro, ha ancora detto, sarà "un socialismo originale, indigeno, cristiano e bolivariano". Infine Chavez ha detto che in questo suo nuovo mandato sguainerà "due spade: una per combattere la corruzione ed un'altra la burocrazia della pubblica amministrazione".
Il candidato dell'opposizione Manuel Rosales ha accettato la sconfitta, impegnandosi comunque a continuare la lotta per raggiungere il potere.
"So che qualcuno - ha detto ai giornalisti un'ora dopo aver conosciuto i risultati ufficiali parziali - con considerazioni emotive vorrebbero che io mentissi e che arringassi la gente dicendo menzogne".
"Non potrei farlo mai - ha spiegato - perché dopo emergerebbe la verità, e la verità è che pur con margini più ridotti, noi riconosciamo che oggi ci hanno battuto". Ma Rosales ha detto che non si ritirerà e che continuerà "democraticamente" la lotta.
LA CAMPAGNA DI LOTTA. L'aggressività è una costante dello stile Chávez: mortificare l'avversario e dimostrare ancora una volta di essere l'unico predestinato a costruire una grande America Latina.
L'ordine dato al proprio comitato elettorale è stato netto: non basta vincere, bisogna raggiungere i 10 milioni di voti (su poco più di 16 milioni di votanti).
È un numero tondo, facile da trasformare, come è accaduto, in un marchio propagandistico: due palme di mano aperte sopra la scritta "diez millones", stampata su migliaia di magliette rosse che la gente indossa per le strade.
Perfino la McDonald's si è ritrovata a sostenere involontariamente Chávez, dopo aver tappezzato le vetrine dei fast food di Caracas di manine gialle in cartone. L'intento era pubblicizzare un'iniziativa a favore dei bambini ma il simbolo è molto simile a quello dei "diez millones".
Le cooperative bolivariste hanno sfornato gadget con l'immagine e il nome del leader. Chávez ha moltiplicato le apparizioni e nell'ultimo mese ha inaugurato due fra le opere pubbliche più importanti del suo mandato: un treno che collega Caracas alla provincia del sud e il secondo ponte sul fiume Orinoco.
Alla seconda cerimonia era presente anche il presidente brasiliano e compagno-rivale a sinistra Iñacio Lula da Silva.
LEADER INTOCCABILE. Ma dietro la compattezza elettorale si nasconde il malumore di una parte del chavismo, movimento eterogeneo in bilico tra moderazione e integralismo.
Sono proprio i duri e puri a promettere una resa dei conti dopo le elezioni: parlano della necessità di radicalizzare la rivoluzione, liberarla dai dirigenti corrotti, milionari del petrolio che comprano ville di lusso a est di Caracas, famiglie capitaliste come i Cisneros e multinazionali come la Nestlé, che macinano profitti. "Dopo le elezioni denunceremo tutti i traditori, che impediscono alla rivoluzione di funzionare" tuona José Roberto Duque, giornalista rosso.
Ma, nonostante i malumori, Chávez appare intoccabile. Prestigiatore della politica, ha convinto la maggioranza dei venezuelani che i meriti sono suoi e quel che non funziona è colpa di chi gli sta attorno.
Nel frattempo lascia intendere che i primi otto anni al potere sono stati di preparazione alla fase castrista della "revolución". (www.panorama.it)

Ecuador: Correa vince e ipotizza una svolta sociale
  Aggiunta del 27 novembre 2006.  Quito - Il giovane economista di sinistra Rafael Correa ha vinto il ballottaggio presidenziale svoltosi ieri in Ecuador ha messo fra sé e il suo rivale, l'imprenditore Alvaro Noboa, un margine di circa 13 punti che appare irrecuperabile. Lo spoglio ufficiale dei voti realizzato dal Tribunale supremo elettorale (Tse) ha confermato la vittoria. Suo vicepresidente è Lenin Moreno. Quando era stato scrutinato il 42,41% dei seggi Correa (Alleanza paese) aveva il 68,41% dei voti, mentre Noboa (Prian) riceveva il 31,59%. Quest'ultimo continua a non riconoscere il risultato ed ha chiesto ai propri rappresentanti nelle province ecuadoriane di esigere un conteggio "voto per voto".
  Correa si configura così come l'ottavo capo di stato che entra in dieci anni a Quito nel Palazzo di Carondelet, di cui tre che non hanno potuto portare a termine il loro mandato. Nelle prime dichiarazioni dopo aver appreso il risultato Correa, 43 anni, ha assicurato che il suo è un "trionfo della speranza e della cittadinanza", aggiungendo che ora comincia un'era di "giustizia sociale, istruzione, salute, lavoro, casa e dignità per tutte e tutti". Ha quindi detto che subito dopo il suo insediamento, il 15 gennaio, come successore di Alfredo Palacio, convocherà un referendum fra la popolazione affinché si esprima se vuole o no la riunione di una Assemblea costituente per riscrivere la Carta Magna. Questa strategia, hanno rilevato gli analisti, è essenziale per il suo futuro presidenziale, perché Correa non dispone di forze proprie nell'attuale Parlamento.
   Dopo aver sottolineato che "manterremo la dollarizzazione (il dollaro ha preso il posto della moneta nazionale, il sucre, ndr.) esattamente come è", il leader di Alleanza paese (Ap) ha concluso sostenendo che "oggi meno che mai firmerei un Trattato di libero commercio con gli Usa perché distruggerebbe la nostra agricoltura, la nostra economia". L'unico riferimento specifico a temi di politica estera il leader di Alleanza paese lo ha riservato alla Colombia, chiedendo che nessuno dei protagonisti del conflitto armato interno del paese vicino (militari, guerriglieri delle Farc o paramilitari) "dovranno mettere neppure la punta di un piede in Ecuador".
   Nessun accenno invece ai potenziali rapporti con il Venezuela di Hugo Chavez, di cui non ha negato di essere un ammiratore. Senza perdere troppo tempo, Correa ha annunciato alcuni uomini del suo futuro governo, fra cui quello di Ricardo Patino all'Economia. In una intervista a Teleamazonas, Patino ha assicurato che la dollarizzazione (l'uso dal 2000 del biglietto verde nelle transazioni correnti) non sarà toccato, che cresceranno gli investimenti produttivi e quelli nell'area sociale. Le risorse per questi progetti, ha concluso, verranno da un diverso uso delle risorse energetiche - l'Ecuador è il 5/o produttore di greggio d'America latina - e da una possibile rinegoziazione del debito estero (di 10.000 milioni di dollari). Come prevedibile, il tema petrolifero sarà centrale, ed al riguardo Correa ha prospettato un possibile rientro dell'Ecuador nell'Opec.

Nicaragua. Ortega vince le elezioni e torna presidente
  8 novembre 2006. Managua. Eduardo Montealegre ha riconosciuto la vittoria del candidato sandinista Daniel Ortega nella elezione presidenziale del Nicaragua. Ortega ha avuto il 38% dei voti. Montealegre ha avuto il 29% dei voti. Queste percentuali, in base alla legge elettorale, premiano Ortega senza bisogno del ricorso al ballottaggio. La legge elettorale impone il ballottaggio solo se il candidato più votato ottiene meno del 40% dei consensi e se la differenza tra il candidato piu' votato (purché abbia raggiunto il 35%) e il secondo sia inferiore al 5%. José Rizo, del Partito liberale costituzionale di destra è arrivato terzo con il 26%, Edmundo Jarquin, del Movimento per il rinnovamento sandinista, ha avuto il 6,4% e Eden Pastora, dissidente storico dei sandinisti, si è dovuto accontentare dello 0,7%. Per Ortega era vitale una vittoria al primo turno perché beneficiava della divisione della destra che al secondo turno si sarebbe probabilmente ricompattata (RAI 24 News)
Brasile: elezioni, ha vinto Lula
 30 ottobre 2006 Brasilia - Luiz Inacio Lula da Silva ha stravinto le elezioni presidenziali brasiliane. L'andamento del voto ha sostanzialmente rispettato tutti i sondaggi di opinione che davano a Lula un vantaggio del 20 per cento sul suo avversario nel voto di ballottaggio, il socialdemocratico alleato con la destra Geraldo Alckmin. La rapidita' con la quale sono stati scrutinati i voti e' stata impressionante. Alle 19:00 locali si sono chiuse le ultime urne nello stato amazzonico dell'Acre, e alle 19,01 si conosceva gia' quasi l'80 per cento dei voti validi. Lula si e' assestato attorno al 60 per cento mentre Alckmin restava sotto di 20 punti percentuali, al 39-40 per cento. Poco dopo il Supremo Tribunale elettorale sanciva la vittoria di Lula.
Il presidente in carica, bandiera della sinistra, ha atteso lo spoglio dei voti in un hotel di San Paolo vicino a quella Avenida Paulista nella quale si e' sviluppata la grande festa delle elezioni del leader del Pt (Partito dei lavoratori) nel 2002. ''La rielezione e' una cosa importante - ha detto il''presidente operaio'' parlando gia' come un vincitore al momento di votare questa mattina a Sao Bernardo do Campo, citta' satellite di San Paolo -. Sono felice perche' il popolo brasiliano ha saputo riconoscere il lavoro di questi primi quattro anni ed e' stato molto generoso con me''. In realta' gli scandali a catena che hanno colpito il suo governo e il suo partito dei lavoratori in questi ultimi due anni hanno dato molto filo da torcere a Lula e lo hanno costretto al secondo turno. Pero' alla fine, dopo che si e' presentato a tutti i dibattiti televisivi, il popolo brasiliano ha dato di nuovo fiducia all'ex sindacalista, ignorando il battere costante sull'etica e contro gli scandali di Alckmin. ''Il paese esce da queste elezioni piu' unito che mai - e' l'impressione di Lula che puo' dimostrarsi piu' forte nel voto che nel 2002, epoca della sua prima elezione -. Cuciremo tutte le alleanze che saranno necessarie per avere tranquillita' e per potere approvare i grandi progetti di cui il Brasile ha bisogno''. Il presidente ha insistito che pretende negoziare con tutti i partiti, compresa l'opposizione dei socialdemocratici (Psdb) alleati con la destra (Pfl), e condurra' personalmente la trattativa con il Pmdb, il partito ago della bilancia in Brasile fra progressisti e conservatori.
''Dobbiamo discutere il Brasile con molto piu' amore - ha sentenziato Lula - con un maggiore coinvolgimento di tutti per i prossimi anni''. Lula e' stato portato a braccia in trionfo fuori dalla scuola nella quale ha votato: un gesto spontaneo della sua gente e non certo un qualcosa di organizzato dal Pt, partito dal quale l'ex tornitore meccanico sembra allontanarsi sempre piu': ''E' il piacere di sapere che il tuo lavoro e' riconosciuto dalla societa''', ha detto. Lula, che ha compiuto due giorni fa 61 anni, governera' sino al 31 dicembre del 2010. Poi sara' non rieleggibile come si usa anche negli Stati Uniti. E' la terza volta che un presidente brasiliano viene eletto per due mandati: il primo e' stato Getulio Vargas che fu presidente nel 1930 e nel 1950, e poi Fernando Henrique Cardoso, che e' rimasto in carica dal 1995 al 2002. I votanti sono quasi 126 milioni e premieranno Lula con una votazione record in numeri assoluti. Questo suffragio sara' superiore a quello del 2002 in cui votarono per Lula oltre 52 milioni di persone. Con il 94 per cento dei voti scrutinati Lula ha gia' ricevuto piu' di 55 milioni di voti.
Alckmin ha perso quel vantaggio che aveva su Lula nelle regioni piu' ricche del Brasile: San Paolo e il Rio Grande do Sul, regione a forte presenza dell'emigrazione italiana dal Veneto. Lula si e' rafforzato sempre piu' nel nord-est, la zona dell'arido ''sertao'' raccontata da Jorge Amado, e nell'Amazzonia, regione che spera in Lula per poter ridurre la deforestazione rafforzando l'economia sostenibile. Poveri contro ricchi si sono affrontati in queste dure elezioni: uno strappo che pero' Lula ha detto di voler ricucire nel corso di questo faticato e agognato suo secondo mandato.(ANSA)
Cile: Michelle Bachelet vince le presidenziali
 16 gennaio 2006 (Corriere della Sera). Al primo turno 45,9% per Bachelet e 25,65% a Pinera. Per la prima volta il Paese sudamericano avrà una donna capo dello Stato. Voti scrutinata 67%: la candidata socialista ha il 53%  Santiago del Cile - La candidata socialista Michelle Bachelet sarà il prossimo presidente del Cile. Per la prima volta una donna diventa capo dello Stato del Paese sudamericano. Lo ha annunciato il sottosegretario all'Interno Jorge Correa Sutil: con il 67% dei voti scrutinati, Bachelet ha il 53,22% contro il 46,77% di Sebastian Pinera, rappresentante dell'Alleanza per il Cile (centrodestra). Al primo turno Bachelet aveva avuto il 45,9% e l’imprenditore miliardario Pinera il 25,65%. Chi è Michelle Bachelet - Single con figli, 54 anni, agnostica: è Michelle Bachelet, candidata socialista di Concertacion Democratica, una coalizione di socialisti, radicali e cristiano-democratici al potere da 16 anni. Bachelet porta in sé l’anima democratica del paese, vittima della dittatura di Pinochet, ma al tempo stesso è figlia di un generale dell’aeronautica militare. Madre di tre figli, avuti da due padri differenti da cui si è separata - in un Paese che ha legalizzato il divorzio solo nel 2004. Nel 1970 si iscrive a medicina e alla Gioventù socialista. L’11 settembre del 1973, al momento del colpo di Stato di Augusto Pinochet, il padre, molto vicino al presidente Salvador Allende, viene arrestato. Morirà sei mesi dopo per torture. Michelle Bachelet continua i suoi studi, aiutando in segreto i perseguitati della dittatura. Il 10 gennaio 1975 viene arrestata dai servizi segreti insieme a sua madre. Le due donne vengono condotte a Villa Grimaldi, il centro di tortura del regime. Liberate alla fine di gennaio, le due donne partono in esilio in Australia, poi in Germania Est dove prosegue gli studi. Torna in Cile nel 1979, nel 1982 ottiene il diploma di chirurgo, ma non avrà un posto in un ospedale pubblico «per motivi politici». Grazie a una borsa di studio si specializza in pediatria e salute pubblica. Michelle lavora per un'organizzazione non governativa che sostiene i figli delle vittime della dittatura. Dopo la transizione democratica (1990), si impegna a fondo come medico della mutua, membro della Commissione nazionale per la lotta all’aids e consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità. Non tralascia di studiare strategia militare a Santiago e a Washington, dato che ritiene che il partito socialista, in cui milita, trascuri indebitamente la questione. Nel 2000 il presidente Lagos la chiama al governo affidandole il ministero della Sanità e una riforma profonda del settore. Nel 2002 diventa la prima ministro-donna della Difesa dell’America latina. In occasione del trentesimo anniversario del colpo di Stato militare si fa promotrice di una riconciliazione tra esercito e società civile.
Bolivia, eletto il primo presidente indio
 19 dicembre 2005 (Corriere della Sera). Vittoria per Evo Morales, socialista e anti-americano. Che annuncia: «Metterò fine al neoliberalismo sfruttatore».La Paz (Bolivia) - Andando oltre i più rosei pronostici della vigilia, Evo Morales, leader del Movimento al socialismo (Mas), si è ampiamente imposto nelle elezioni svoltesi domenica in Bolivia, e sarà quindi il primo presidente autenticamente indio d'America latina. Morales, che è anche massimo dirigente della Federazione dei coltivatori di coca del Chapare, ha superato con ampio margine il conservatore Jorge «Tuto» Quiroga, del movimento Potere democratico sociale (Podemos), ed il centrista Samuel Doria Medina, di Unità nazionale (Un). Secondo l'ultima proiezione realizzata da Captura Consulting e proposta dalla Tv di stato, Morales ha ottenuto il 50,8% dei voti, e quindi la legittimità di una vittoria al primo turno, che attende però la conferma ufficiale dalle cifre della Corte nazionale elettorale (Cne). Sulla base del 90% del campione della proiezione, e con un margine di errore dello 0,5%, Quiroga ha raccolto il 31,7%, Medina l'8,7%, Michiaki Nagatani del Mnr il 6,6% e Felipe Quispe del Mip l'1,2%. A completare il successo vi è stata una importante affermazione alla Camera dei deputati (65 seggi su 120) ed una buona prestazione al Senato (13 seggi, come Podemos). Nel complesso il Mas ha per il momento 78 seggi, gliene manca uno per avere la maggioranza al Congresso nazionale.  Nella sua prima conferenza stampa Morales, il quale prima del voto aveva detto che la sua candidatura «era un incubo per gli Stati Uniti», ha annunciato un governo «di uguaglianza, giustizia sociale, equità e pace» che «metterà fine al neoliberalismo sfruttatore». Dopo aver assicurato che «finirà l'odio ed il disprezzo a cui, come indios, siamo sempre stati sottoposti», il vincitore ha detto: «Vogliamo vivere insieme senza esclusioni, in una unione nella diversità». Infine, rivolgendosi agli imprenditori, ha detto che il Mas «non ricatta e mai ricatterà gli imprenditori onesti che desiderino investire nel paese».
America Latina: storica svolta a sinistra anche a Montevideo
 02 novembre, 2004 Martedì. Le presidenziali in Uruguay hanno visto la "storica" vittoria di Tabaré Ramón Vázquez Rosas, primo presidente di sinistra in oltre 170 anni di storia dell’Uruguay indipendente, a capo della coalizione ‘Encuentro Progresista-Frente Amplio-Nueva Mayoría’ (EP-FA-NM). La coalizione è composta da ex-esponenti democristiani fino a Pepe Mujica, ex-guerrigliero Tupamaro. Tabaré Vázquez e il suo ‘Fronte ampio’ hanno ottenuto il 50,69 % dei voti scrutinati; al secondo posto Jorge Larrañaga del Partido Nacional ( già ‘Blanco’) con il 34,06 seguito da Guillermo Stirling del Partido Colorado con il 10,32, la sua peggiore prestazione di tutti i tempi. Il 2,53% delle preferenze è andato a formazioni politiche minori. La coalizione di sinistra ha anche ottenuto 16 senatori su 30, mentre al Blanco ne sono assegnati 11 e 3 al Colorado, ed ha ottenuto la maggioranza dei 99 seggi della Camera. Alle elezioni ha partecipato il 93% degli aventi diritto, facendo registrare la più alta affluenza alle urne nella storia del Paese -riporta l'agenzia Misna . Il nuovo presidente si insedierà solo a marzo, ma ha promesso di avviare il cambiamento subito, ritenendo anche di poter presentare entro un paio di settimane una lista di esponenti del suo governo.
I problemi non mancano: tredici milioni di dollari di debito pubblico - rispetto al quale sono fondamentali i rapporti con il Fondo Monetario Internazionale - e una folla di 850.000 poveri, 100.000 indigenti, 950.000 disoccupati e sei bambini su 10 con necessità vitali insoddisfatte (su una popolazione di poco inferiore ai tre milioni e mezzo). Ma ci sono anche altre questioni importanti - sottolinea in un editoriale l'agenzia Misna - come la gestione delle risorse idriche del Paese. "Un problema enorme vista la silenziosa o comunque mascherata aggressività con cui si stanno muovendo da tempo in gran parte dell’America Latina diverse imprese straniere, soprattutto statunitensi". E' stato infatti approvato, con il 65% di sì, il cosiddetto "Plebiscito del agua", un referendum su emendamenti costituzionali per una gestione 'sostenibile e solidale' del ricco patrimonio idrico uruguayano. Nel testo della legge di riforma tra l’altro si stabilisce: "Le acque di superficie e quelle sotterranee..... costituiscono una risorsa unitaria, subordinata all’interesse generale, che costituisce parte del demanio pubblico statale". E' una modifica che aveva provocato forti reazioni prima ancora di essere approvata; l’azienda privata spagnola Uragua, concessionaria per i servizi idrici a Maldonado, aveva detto infatti che avrebbe rotto il contratto in caso di vittoria del sì. Il voto potrà avrà di sicuro effetti anche nei Paesi vicini. "E’ probabilmente presto per capire quanto il voto uruguayano cambierà i rapporti tra il Sud del continente e gli Stati Uniti" - commenta Manolo Diaz per Lettera 22 . Ma certo la vittoria di Tabare Vazquez e della coalizione di Encuentro Progresista-Frente Amplio modifica uno scenario in forte movimento, che già aveva ricevuto diversi scossoni dall’arrivo al potere di Lula in Brasile e di Kirchner in Argentina. I paesi a guida progressista aumentano nell’intera fascia Sud del continente, con una saldatura che, nonostante le differenze, porta dritto anche al Venezuela bolivariano che, tutto sommato, ha visto il contestato e controverso presidente Hugo Chavez vincere con metodi democratici e senza brogli la prova difficile del referendum di quest’estate per la sua riconferma". L'America Latina non si stanca quindi di sorprendere da un punto di vista politico e sociale. "Un momento molto singolare" - enfatizza in un'intervista esclusiva a Selvas, Raúl Zibechi, giornalista, analista e scrittore. Alla viglia delle elezioni negli Usa, quelle nei paesi latinoamericani manifestano comunque un segnale politico che può opporsi alle ricette del Fondo monetario o alla baldanza di Washington verso il "cortile di casa". [GB] (MISNA-Lettera 22-Inter Presse Service-Selvas)
Argentina. Kirchner: parole e fatti
  26 gennaio 2004 ZNet Raul Bassi. La vittoria di Nestor Kirchner alle ultime elezioni presidenziali in Argentina è stato l'ultimo atto di un dramma, cominciato alla fine del 2001, che avrebbe sconvolto l'establishment di questo paese. Ma a quasi un anno di distanza dalla sua vittoria elettorale, come se la passano adesso gli argentini? Il processo, quasi rivoluzionario, che si è svolto tra il 2001 ed il 2003, ha visto tre capi di stato costretti a dimettersi in meno di una settimana. Al culmine delle proteste, quasi la metà della popolazione aveva aderito a diverse organizzazioni di massa, dai "piqueteros" disoccupati alla classe media delle assemblee popolari. Ma il vuoto di leadership, il frazionamento della sinistra e le scelte molto astute di alcuni politici hanno ostacolato il processo rivoluzionario. All'epoca delle elezioni presidenziali, Kirchner, esponente della sinistra peronista ed ex governatore della Patagonia, è stato eletto con poco più del 20% dei suffragi. I primi passi La cerimonia di insediamento è avvenuta all'insegna di radicali riforme ed alla presenza dei leader politici latinoamericani più popolari. Per l'occasione, Buenos Aires ha ospitato il presidente della Repubblica di Cuba, Fidel Castro, il Presidente del Brasile, Luiz "Lula" da Silva ed il Presidente del Venezuela Hugo Chavez. I primi atti di Kirchner in veste di presidente, rivolti contro le istituzioni più detestate e corrotte del paese, avevano contribuito a corroborare l'impressione di una rottura radicale con il passato. Poche settimane dopo il suo insediamento, i vertici delle forze armate venivano mandati a casa ed il sistema giudiziario veniva epurato dei suoi giudici più famigerati e corrotti. Venivano ripuliti anche polizia, amministrazioni dei fondi pensione e servizi segreti. In un fiume di discorsi contro la globalizzazione ed il progetto dell'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), Kirchner sottolineava l'esigenza di un "capitalismo nazionale", indipendente da qualsiasi ingerenza internazionale. Contemporaneamente, i prezzi dei servizi pubblici essenziali venivano congelati e veniva aumentato l'importo dei piani "Trabajar" (una specie di sussidio di disoccupazione). E durante i negoziati con il Fondo Monetario Internazionale, Kirchner arrivava addirittura a proporre ai creditori dell'originario debito privato, poi "nazionalizzato" da Menem, un rimborso equivalente al 25% del suo valore. Con tutti questi provvedimenti, Kirchner sembrava essersi messo in rotta di collisione con l'Amministrazione Bush, soprattutto quando Roger Noriega, segretario di stato di Washington per gli affari latinoamericani, esprimeva un duro monito sulla posizione argentina nei confronti di Cuba ed il debito privato e, guarda caso, convocava il presidente argentino ad un incontro con il presidente statunitense. Tutto farebbe pensare che Kirchner sia salito sulla stessa barca di Chavez e Castro nella veste del patriota latinoamericano che si oppone all'Impero. Ma sarà anche vero? Le relazioni con gli Stati Uniti sono contraddittorie. Recentemente Kirchner, insieme a Lula, ha sottolineato che l'Argentina avrebbe collaborato con Evo Morales ed il suo radicale Movimiento al Socialismo (MAS) in caso di una sua vittoria alle prossime elezioni in Bolivia. Washington si oppone categoricamente a questa eventualità. Tuttavia, l'opposizione di Kirchner all'ALCA, analogamente a Lula, si è ultimamente ammorbidita in una battaglia per un'ALCA "più giusta". In occasione del recente vertice dei capi di stato latinoamericani in Messico, soltanto il Venezuela ha espresso un NO incondizionato a questo accordo. Per quanto riguarda il debito, partendo dal presupposto che "se l'Argentina può pagare, siamo disposti a pagare", Kirchner ha negoziato un piano di rimborso sulla base minima del 3% del PIL argentino. Conseguentemente, quasi il 40% della crescita del budget nazionale sarà destinato al pagamento degli interessi. L'incremento della spesa a favore degli ammortizzatori e dello sviluppo sociali sarà solo poco più del 2%. La situazione economica reale L'ultima settimana del 2003, il governo ha annunciato che la crescita economica prevista per l'ultimo semestre dell'anno era del 7% e che il tasso di disoccupazione si era ridotto fino al 4,5%. Ma si tratta di un quadro idilliaco da cartolina di Natale. Il salario medio in Argentina ammonta a circa 550 pesos (circa 150 Euro), a fronte di un costo medio della vita mensile di 1.500 pesos (circa 415 Euro). Ciò significa c he il 58% degli argentini vive al di sotto della soglia di povertà e quasi il 30% in assoluta povertà. Dal 1970 il potere di acquisto dei salari è diminuito di circa il 60%, a fronte di un aumento del costo della vita del 74%. Il tasso di disoccupazione è del 22% (circa 3,5 milioni di senza lavoro). Se ci aggiungiamo anche i sottoccupati, questa cifra raggiunge circa i 5,2 milioni. La crescita dell'occupazione annunciata dal governo non riesce nemmeno a ripristinare la situazione antecedente la recessione del 1998, quando il tasso di disoccupazione era al 12%. Se diamo per buone le stime dell'establishment economico, per ridurre la disoccupazione al di sotto del 10% sarà necessaria una crescita del 5% per 8 anni consecutivi. Un vero e proprio miracolo. Ma quali sono questi nuovi posti di lavoro? Negli anni 90, "casualizzazione" dei rapporti di lavoro e licenziamenti furono imposti in tutto il paese in nome della modernizzazione e della "flessibilità". Adesso, in nome di un' "Argentina seria", lo sfruttamento dei lavoratori si sta diffondendo sempre più. La metà dei lavori presuppone il pagamento in contanti che genera profitti aggiuntivi per il datore di lavoro. Questa tendenza è particolarmente evidente soprattutto nei settori in cui la svalutazione del peso ha praticamente cancellato le importazioni. L'industria tessile, dell'abbigliamento, parte di quella metallurgica sono responsabili da sole di circa l'80% della recente crescita dell'occupazione. In questi settori i diritti dei lavoratori sono stati quasi azzerati, i sindacati sono ormai degli ectoplasmi e lo sfruttamento della manodopera è alle stelle. I giovani e le donne, che rappresentano la maggioranza in questo settore, guadagnano il 37% in meno dei loro colleghi maschi. "Aiuti" dal governo Allo stesso tempo, il governo sta preparando un piano chiamato "Manos a la Obra" ("mettiamoci all'opera"). Questo piano ha lo scopo di razionalizzare tutti i pagamenti per la previdenza sociale grazie ad un sistema di smart card finalizzato, soprattutto, ad indebolire lo spirito combattivo delle organizzazioni dei senza lavoro, soprattutto quelle particolarmente attive. È un sistema di lavoro socialmente utile che affonderà i salari sotto la soglia minima contrattuale peggiorando ulteriormente le condizioni d'impiego dei lavoratori. Mentre questo programma viene attuato, diventa sempre più evidente che si tratta di un attacco contro tutto il movimento dei lavoratori, sia quelli occupati, sia quelli senza lavoro. L'obiettivo è chiaro: congelare i salari e peggiorare le condizioni di lavoro, il tutto in nome del consolidamento del "capitale nazionale". Il CEO della FIAT, la più grande fabbrica di automobili in Argentina, ha affermato che con questo piano potrebbe offrire molti nuovi posti di lavoro ai disoccupati, soprattutto perché entrerebbero in organico con i sussidi governativi. La crescita sta arrivando con un incremento della produttività ed un aumento delle ore lavorative, unitamente ad una media mensile di 60 incidenti mortali sul lavoro. Il periodo di prova per i neoassunti è stato prolungato a 12 mesi, mentre fioriscono le agenzie di lavoro interinale che procacciano lavoratori senza tutele legali. Le ferie sono state accorciate e le pause per il pranzo adesso ricordano quelle di "Tempi Moderni", il famoso film di Charlie Chaplin del 1936. Il ministero dell'Industria ammette che le ore di lavoro annuali sono aumentate a 2040 per ogni lavoratore, una media di nove ore e mezza al giorno a fronte soltanto di un piccolo aumento di salario... se c'è stato. Il quadro è quello di un movimento operaio regredito a condizioni da 19° secolo, ben diverso da quello che può vantare una memorabile storia di lotte che è un esempio per noi tutti. Sotto il peso della pesante ipoteca di una crisi ereditata, unitamente all'esigenza di affrontare il neoliberismo ed affermare la dignità nazionale, il governo di Kirchner, con il pieno appoggio dell'amministrazione pubblica, sta perseguendo in piena regola una strategia di collaborazione di classe rivolta contro i lavoratori. Il paradiso dei padroni "Ormai ci stiamo lasciando l'inferno alle nostre spalle", dice Kirchner. Ma dove stiamo andando? Se i lavoratori stanno perdendo, allora chi sta vincendo?I profitti sono in aumento, con un ritorno sugli investimenti compreso tra l'8% ed il 10% (secondo il tasso d'interesse preteso dalle banche sui mutui destinati alle operazioni d'investimento). La produttività ha fatto registrare uno straordinario aumento del 13% tra la prima metà del 2002 ed il 2003. Ed il solco tra il 20% più ricco ed il 20% più povero della popolazione si sta approfondendo. I primi stanno accumulando il 54% della ricchezza prodotta recentemente e questi ultimi solo il 3%. I mesi stanno passando ed il divario tra gli atti del governo Kirchner e le sue parole si sta facendo più marcato. Le illusioni di quanti credono che questo sia un governo radicale stanno svanendo. L'immagine di un governo pragmatico è molto più vicina alla realtà. Come già accaduto in passato in questo paese, abbiamo a che fare con un tradizionale governo "peronista progressista", come la stessa moglie del presidente Kirchner ha ammesso lo scorso anno in un forum a Parigi. Suo malgrado, il popolo argentino sta imparando a conoscere i limiti di questo "progressismo". Ci troviamo davanti ad un paese con il potenziale per nutrire 300 milioni di persone all'anno ma che, nella situazione attuale, non riesce a nutrire nemmeno i suoi 30 milioni di cittadini, di cui il 58% vive al di sotto della soglia della povertà.
Venezuela, vince la nonviolenza
 12 aprile 2002 Alessandro Marescotti. Chavez ritorna in carica Dopo aver scritto un lungo testo sul golpe in Venezuela ecco il miracolo: i golpisti sono stati sconfitti. Una oceanica folla di poveri riporta con la non violenza la legalita' in Venezuela. Chavez ritorna a dirigere il governo, lui che era stato l'unico legittimo leader democraticamente eletto. Il capo della Confindustria Venezuelana - che aveva usurpato il potere - deve lasciare il palazzo presidenziale. Evviva. Questa volta la storia gira dalla parte dei diseredati. Gli Stati Uniti - che avevano approvato il golpe con una nota ufficiale del governo - devono rassegnarsi. E cio' avviene, cosa importante, in modo pacifico. E per questo e' significativo il testo (qui di seguito riportato) scritto con indignazione contro il golpe che aveva destituito Chavez. Vi troverete tutte le ragioni per cui il popolo venezuelano ha liberato Chavez e ha impresso alla storia dell'America Latina una svolta come mai era avvenuto prima.




postato da: gorca49 alle ore 15:06 | link | commenti (7)
categorie: usastati unitisinistraamerica latinapolitica occidente

Commenti:
 
#1 16 Novembre 2006 - 08:13
 
...in effetti un'escalation a sinistra latinoamericana da far paura...
Alessandro A.
utente anonimo  (IP: 3589f931ef53935)
#2 21 Novembre 2006 - 13:05
 
Caro Carlo,

ti invio questo comunicato per i tuoi lettori.

Carissimi saluti.

Mario Monforte

SULLA MANIFESTAZIONE A ROMA DEL 18 NOVEMBRE





Se qualcuno avesse voluto far fallire un’importante manifestazione e dare l’opportunità al regime mass-mediale in atto di far passare i sostenitori della causa palestinese come orridi affiliati al fondamentalismo terrorista islamico, ai tetri buffoni della destra italica - primi responsabili dei morti italiani in Iraq, avendo voluto partecipare all’occupazione militare Usa del paese - di dar fiato alle trombe stonate della piú fascista retorica patriottarda, al centrosinistra di allinearsi goffamente su tali temi - ebbene non avrebbe potuto far di meglio di quanto è stato fatto durante e a conclusione della manifestazione romana del 18 novembre.

Slogani bolsi - ripresi dal tempo del Vietnam -, assurdi - perché è insensato gridare «una dieci, cento …» etc., in quanto stragi del genere sono quotidiane in Iraq -, sbagliati - perché non qualificano l’azione che dobbiamo condurre in Italia, anzi la fanno facilmente squalificare di fronte alla pur manipolata «opinione pubblica», e bloccano qualsiasi dibattito chiarificatore -, uniti a palloccolose imitazioni di quanto si fa altrove e in altri contesti - fantocci dati alle fiamme, etc. -, erano proprio quello che ci voleva, per offrire un bel sostegno a tutto lo schieramento politico italiano, ivi compreso chi ha indetto la contemporanea ambigua manifestazione a Milano.

C’è da chiedersi fino a che punto possa arrivare l’idiozia: questa risulta davvero tanta. Anche troppa. Perciò, è inevitabile la seguente domanda: si tratta davvero solo di idiozia? Perché infiltrati e agenti provocatori non avrebbero potuto conseguire un risultato, per loro, piú soddisfacente.

Comunque sia - pur supponendo, e fondatamente, un bel mix di cerebrolesi, infiltrati, provocatori - dichiariamo forte e chiaro che non vogliamo nemmeno sentire le solite chiacchiere sui “compagni che sbagliano”, che non c’è assolutamente niente da discutere, e che non si tratta per niente di “questioni interne alla sinistra”: abbiamo di fronte un “insieme” che non hanno nulla a che fare con la sinistra - e, per quanto ci riguarda, non permetteremo a questa gente di merda (senza offesa per la merda, realtà naturale, che serve per le coltivazioni biologiche) di riuscire a coinvolgerci una seconda volta nel contesto della loro opera di distruzione.

Quindi, comunichiamo la nostra conseguente presa di posizione:

1. se fra le forze che promuovono le iniziative e manifestazioni a sostegno della causa palestinese c’è una maggioranza che favorisce la gente di merda indicata, o comunque ne permette la presenza, o comunque la tollera - noi non vi parteciperemo piú.

2. Se fra le forze che promuovono le iniziative e manifestazioni a sostegno della causa palestinese c’è una minoranza che favorisce la gente di merda indicata, o comunque ne permette la presenza, o comunque la tollera - noi pretendiamo che venga allontanata, da subito e sempre.

3. Se fra le forze che promuovono le iniziative e manifestazioni a sostegno della causa palestinese c’è qualcuno che favorisce la gente di merda indicata, o comunque ne permette la presenza, o comunque la tollera - noi pretendiamo che venga buttato fuori, da subito e sempre.

4. Riguardo a prossime iniziative e manifestazioni, a cui parteciperemo se si attuano la chiarificazione e la ripulitura indicate, richiediamo che si organizzi un preciso e deciso servizio d’ordine - che proceda a impedire l’opera di questa gente di merda, con tutti i mezzi possibili.



Saluti a tutti,



per l’Area della Sinistra toscana,



Mario Monforte 
La mia homepage: http://MONFORTEutente anonimo  (IP: 3589f931ef53935)
#3 21 Novembre 2006 - 14:09
 
Caro Carlo,

invito te ed i touoi lettori a questo incontro estremamente interessante.

Giuliano

Venerdì 24 novembre alle 21
presso il Circolo ARCI di Bonelle


Circolo Legambiente di Pistoia
Invita al dibattito
Un'altra Pistoia è possibile:
politica del territorio, sviluppo urbanistico, servizi, ambiente, qualità della vita.

Introduce e modera Antonio Sessa (Legambiente)


Intervengono:
Giovanni Capecchi (Verdi)
Mauro Chessa (Officina Politica Pistoiese)
Monica Sgherri (Rifondazione Comunista)
Rappresentanti dei comitati cittadini.

Sono invitati a partecipare al dibattito le associazioni.... ed i cittadini tutti.
...............................................................
21.10.2006 il manifesto
Il territorio è un bene comune
Alberto Magnaghi, Presidente Rete Nuovo Municipio

La crescita tumultuosa di reti municipali dal livello locale a quello globale pone alcuni requisiti di fondo al progetto di federalismo municipale solidale, che richiamo sinteticamente.
1. Non si può parlare di federalismo se non come espressione di una democrazia compiuta a livello di comunità locale. Non si federano strutture clonate dal centro, che parlano tutte la stessa lingua, omologata dalle leggi del mercato mondiale.
È nella dimensione locale (quartiere, municipio, piccola città, paese) che si possono attivare tutte le componenti sociali in forme conviviali di relazione in cui ciascuno, riferendosi agli ambiti della vita quotidiana, riesca a esprimere il proprio stile di vita e immaginare il proprio futuro.
Solo a partire dall'autogoverno della comunità locale è possibile attivare reti non gerarchiche e solidali di municipi che siano espressione derivata della democrazia di base.
Se i comuni sono terminali delle strategie del mercato globale, le reti di comuni si svuotano di significato riducendosi a crocevia funzionali di reti globali, oggetto e non soggetto di politiche di concentrazione delle imprese, delle istituzioni finanziarie e commerciali e delle pubblic utilities che allontanano sempre più i sistemi decisionali dai livelli accessibili ai cittadini.
2. Se l'autogoverno locale è la condizione del federalismo, è necessario che la democrazia partecipativa diventi forma ordinaria di governo in tutti i settori e a tutti i livelli territoriali, per estendere la cittadinanza attiva sulle scelte strategiche dei futuri delle città, dell'economia, della produzione e dei consumi, valorizzando i saperi diffusi di una società complessa che produce conflitto, ma anche progettualità molecolare, attraverso nuovi saperi produttivi, comunicativi, artistici, ambientali, relazionali ecc. Questa progettualità sociale consente di superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio, reintroducendo il concetto «terzo» di uso comune di molte componenti territoriali e sociali che sono in via di privatizzazione e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: oltre all'acqua, l'energia, la salute, l'informazione, anche le riviere marine, lacustri e fluviali, paesaggi agroforestali semplificati, degradati e recintati, spazi pubblici urbani (sostituiti da parcheggi, supermercati), spazi aperti interclusi della città diffusa e dei capannoni industriali, gated communities e città blindate, paesaggi degradati delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via: in una parola il territorio.
Restituire al territorio il valore statutario di bene comune, significa riprendere il significato e i principi degli usi civici: l'introduzione di un terzo attore comunitario nella gestione e governo e dei beni patrimoniali; la produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e per la fruizione pubblica; l'affermazione di forme d'uso collettivo che, in quanto tali, conformano le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, in forme durevoli e autosostenibili.
3. Si sta verificando, a partire dai processi partecipativi locali, uno straordinario processo di costruzione di reti che fanno evolvere le singole esperienze verso nuove frontiere del concetto di interesse pubblico e di progettualità alternativa. Queste reti solidali di municipi, province regioni, federano esperienze dal locale al globale relative ai temi della democrazia partecipativa, delle grandi opere, della pace, il disarmo, la cooperazione decentrata; le pratiche di accoglienza e diritti di voto; le economie solidali, la finanza etica, il consumo responsabile; i bilanci sociali e di genere, il welfare municipale comunitario; la valorizzazione e la certificazione dei prodotti alimentari locali, e cosi via. Questa «rete delle reti» va costruendo una nuova «geografia dal basso» dell'Europa dei comuni e delle regioni in una visione euromediterranea che configura un orizzonte strategico alternativo all'Europa neoliberista degli stati.
Si profila un nuovo protagonismo delle città che non solo modifica la geografia dello spazio europeo verso un'alta densità di relazioni multipolari e multiscalari, ma può modificare i contenuti e la forma del processo costituente.
.......................................................................................
Un nuovo libro, il terzo, scritto da Marco Boschini, assessore comunale di Colorno (Parma) e fondatore dell'Associazione Comuni Virtuosi ( http://www.comunivirtuosi.org/ ):

"In Comune", Esperienze concrete semplici ed efficaci
Ciò che rende capaci di guardare più in là non sono le appartenenze ma gli orizzonti.
Le esperienze concrete, semplici ed efficaci, raccolte in questo libro aprono ad orizzonti nuovi che richiedono oggi una risposta sollecita in un mondo in cui persone e istituzioni, ambiente ed economia soffrono e rischiano il collasso; in un mondo in cui il locale e il globale sono sempre più interdipendenti.edizioni Emi, porta avanti i temi trattati da "Caro Sindaco New Global" e "Comuni virtuosi", e come i suoi predecessori è una straordinaria rassegna di buone pratiche ed esperienze efficaci adottate da amministrazioni comunali italiane nel settore del risparmio energetico, della mobilita' sostenibile, di acquisti ecologici e del commercio equo e solidale.

Si racconta, per esempio, di progetti come quello di Bagnacavallo (Ravenna) nel settore del risparmio idrico o di quello di Montebelluna per la raccolta differenziata dei rifiuti, dove, grazie a un sistema porta a porta ben organizzato, il materiale avviato al riciclaggio è aumentato dal 49,6% del 2002 al 78,6% del 2004.
...................................
Marco Boschini
Esperienze concrete semplici ed efficaci

Questo libro è uno strumento utile e nuovo per chiunque miri al futuro, un futuro che sia tale per tutti, non per un solo continente o paese, non per un solo gruppo o un solo schieramento, ma proprio per tutti.

Non vogliamo guardare il dito, ma fissare il nostro sguardo al cielo che quel dito ci indica; non vogliamo soffermarci su chi o come ha realizzato queste esperienze, ma su ciò che queste stesse esperienze possono trasmetterci.

Prefazione a cura di Associazione dei comuni virtuosi
L'idea di scrivere un “manuale del biomunicipio” nasce dall’esperienza che ho fatto in questi ultimi tre anni. Con amici e colleghi amministratori ho dato vita all’Associazione dei Comuni Virtuosi, una rete di enti locali impegnati a favore dell’ambiente con progetti e proposte concrete.
Abbiamo dimostrato che intervenire a favore dell’ambiente non solo è possibile e necessario, ma anche conveniente.

Dopo aver pubblicato per l’EMI due volumi (Caro sindaco new global. I nuovi stili di vita nella politica locale e Comuni virtuosi, Nuovi stili di vita nelle pubbliche amministrazioni) che raccolgono alcune delle più significative buone pratiche adottate da decine di comuni e province italiane, ho avuto la fortuna e il piacere di girare in lungo e in largo l’Italia, ospite di gruppi di acquisto, botteghe del commercio equo e solidale, associazioni ambientaliste e comitati.
Ho partecipato a molti dibattiti e conferenze, entrando in contatto con centinaia di amministratori, esperti e semplici cittadini impegnati quotidianamente nella sperimentazione di idee rivoluzionarie: cantieri sociali i cui punti di forza sono la partecipazione, la concretezza e la contaminazione (cioè il superamento delle divisioni consolidate, e a volte sclerotizzate, fra settori della pubblica amministrazione a livello locale).

Scopo di questo manuale è offrire dunque un ventaglio reale delle opportunità operative che ogni istituzione locale interessata alla salvaguardia ambientale può adottare immediatamente, senza grossi sforzi economici e contando su esperienze già consolidate.

Gli ostacoli da superare sono tanti e si possono riassumere nei seguenti punti:
1. la difficoltà culturale da parte della classe dirigente di aprirsi al rinnovamento;
2. l’incapacità da parte della macchina amministrativa, laddove sono presenti amministratori seriamente impegnati nel cambiamento, a recepire le nuove progettualità e a tradurle in atti conseguenti (bandi, capitolati, ecc.);
3. l’assenza di informazioni e di un punto di riferimento cui appoggiarsi per ottenere la documentazione necessaria per adottare un progetto in una nuova realtà (soprattutto nei piccoli Comuni poter contare sull’esperienza preliminare di un progetto realizzato altrove può essere determinante per l’avvio stesso della sperimentazione);
4. la mancanza di una strategia complessiva e di una visione...
utente anonimo  (IP: 3589f931ef53935)
#4 27 Novembre 2006 - 07:34
 
Caro Carlo,

ti "giro", segnalandolo a te ed ai tuoi lettori, un appuntamento, appena arrivatomi, molto attinente al post che hai pubblicato:

BASTA BASI BASTA GUERRE !
IL 2 DICEMBRE TUTTI A VICENZA !
Gli Stati Uniti vogliono costruire a Vicenza una grande base militare, da dove partirà ogni attacco in Medio Oriente. Le basi USA, regolate da accordi segreti con i governi italiani, servono a fare le guerre, sono pericolose, dannose per l’ambiente e ci costano care.
Noi paghiamo il 37% dei costi per il loro mantenimento e a questo si deve aggiungere che la nuova Finanziaria prevede per le spese militari quasi 20 miliardi di euro (il 5% in più della precedente). Tutti soldi questi sottratti ai servizi sociali. La popolazione di Vicenza è unita, decisa ad opporsi a questo piano e lancia un appello per manifestare insieme contro la guerra e le basi militari. Noi esprimiamo ad essa la nostra solidarietà e chiediamo al Governo e al Ministro della Difesa Parisi di opporsi a tale progetto. Ma siamo consapevoli anche di avere un problema comune con Vicenza poiché anche la Toscana, con la base USA di Camp Darby, partecipa al sistema di guerra, complici i governi italiani di ieri e di oggi che hanno concesso alle basi USA l’uso del territorio nazionale, legando il nostro paese a intollerabili servitù militari che offendono la sovranità nazionale. Per questo chiediamo l’intervento del Presidente della Regione Toscana Claudio Martini per la chiusura e la riconversione ad usi civili della base statunitense in Toscana.
Invitiamo cittadine e cittadini, associazioni, gruppi e partiti a partecipare alla Manifestazione nazionale del 2 dicembre a Vicenza.
ore 14,00 partenza del corteo dalla caserma Ederle nel Viale della Pace
ADESIONI (in ordine alfabetico) :
Collettivo di Lettere, Comitato Fermiamo la Guerra, Comunità per lo svilupppo Umano, Cpa Fi-Sud , Donne in nero, Emergency ( firenze ), Fucina per la nonviolenza , Gruppo vialebombe da Aviano, Giovani comuniste/i , Prc-Federazione di Firenze,Studenti di Sinistra
Partenza Pullman previsto alle 9,00 (davanti Sashall)
-ore 9,30 (dal parcheggio del mercato ortofrutta di Novoli)
Rientro a Firenze previsto alle 21,30
costo biglietti :15 euro-ridotto Studenti 10 euro
Per contatti e Info pullman cell 328/0339384 marco
Per adesioni patrizia.creati@virgilio.it

Saluti

Mario








utente anonimo  (IP: 3589f931ef53935)
#5 05 Dicembre 2006 - 15:04
 
chissà quello che di tutta questa sensazionale svolta a sinistra dell'america latina ne pensa il famigerato omero ciai, ex corrsipondente dell'"unità" ed ora corrispondente di "repubblica"?
ha mai letto niente di questo squallido personaggio noto per essere + bushano di bush?
Se no, leggi qualcosa e fammi sapere.
Fabrizio
utente anonimo  (IP: 3589f931ef53935)
#6 18 Dicembre 2006 - 17:45
 
carissimo fabrizio,
ho visto di recente qualcosa su internet, ma di più per ora non posso dirti.
ciao Carlo
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#7 20 Agosto 2008 - 17:30
 
buono anche questo...seppur in ritardo...un bacio...Anna C.
utente anonimo  (IP: bb4bcd669dfab02)
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